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IL MOSTRO E' IN TAVOLA...BARONE FRANKENSTEIN
(FLESH FOR FRANKENSTEIN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 luglio 1975
 
di Paul Morrissey, con Joe Dallesandro, Udo Kier, Dalila Di Lazzaro, (Stati Uniti - Italia, 1973)
Nella coppia Andy Warhol – Morrissey non è facile vederci chiaro. Ex- cameraman del più celebre collega, Morrissey si è sempre più reso indipendente nel suo mondo di creatore di cinema. Al punto che alcune versioni danno il nome di Andy Warhol sulle locandine come una pura questione di convenienza commerciale. Comunque sia, l'influenza del mondo di Warhol, della pop-art, del filone underground sul regista di FLESH FOR FRANKENSTEIN è tutt'ora fortissima. E, a prescindere da a chi vada il merito, il film è lungo dall'essere quell'operina truculenta aizza-borghesi che una parte della critica ha poco stimato.

Il film e almeno uno splendido gioco decorativo: il castello di Frankenstein, la campagna circostante e, soprattutto, gli interni sono di una intelligenza compositiva rara. Il tono della fotografia, vivido, velato, sfociadagli esterni in quello sapientemente chiaro-scuro dagli interni, l'incredibile sala da pranzo, la clava della castellana, impreziosita dagli oggetti che svelano una scelta artistica superiore.

Una sola sequenza basterebbe poi a dimostrare che Morrissey e Warhol fanno del cinema significante: ed è quella che, partendo dall'inquadratura magnifica della donna sommersa nella vasca, rivela lentamente, con una carrellata all'indietro, l'intero laboratorio di Frankestein. Un movimento perfettamente ritmato che serve, in tutto il loro splendore, le forme ed i colori dello straordinario ambiente.

Chiaramente, ciò che colpisce di più lo spettatore è il lato Grand Guignol del tutto: forse mai sullo schermo erano state portate budella, visceri, pezzi anatomici e sangue in tale copiosità. Un apparato solo appartatamente spaventoso, che agli autori serve evidentemente come elemento di provocazione, esattamente come in pittura. Ma una meccanica, anche, ben presto resa inoffensiva per l'humour con il quale è usata, e per il quadro estetico sopraffino nel quale è inserita. Un quadro che la eleva ad oggetto non speculativo e che la pone al servizio di un discorso ben preciso.

E' il fattore che rende FLESH FOR FRANKENSTEIN qualcosa di più di un divertissement formale. Un'opera nella quale ritroviamo i temi di HEATH e delle opere precedenti: il dramma dell'individuo impossibilitato ad amare, comunicare, dopo esser passato attraverso tutte le esperienze del contatto umano. Frankestein che costruisce i suoi mostri per farli procreare, che li possiede da cadaveri per dar loro la vita. O la moglie sorella che cerca di insegnare l'amore al robot; prima di uscire a sua volta distrutta. Sono gli stessi individui sfatti, vinti, dalle tristi carni e inutili amori che Morrissey e Warhol dipingevano nei sobborghi e nel sottobosco delle metropoli americane. La stessa impotenza dell'uomo nei confronti di una sua presunta emancipazione amorosa, la sua solitudine disperata ripresa in questa fiaba fantastica. Una solitudine radicata nel più profondo, biologia, cromosomica: come splendidamente riassume l'inquadratura finale del film, con i due bambini di Frankestein che, bisturi alla mano, si mettono maliziosamente all'opera per continuare l'opera del padre.


   Il film in Internet (Google)

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